Traumi complessi

Gli anni ottanta e la prima parte degli anni novanta sono stati caratterizzati dall’impegno della ricerca clinica nel chiarificare i nessi tra esperienze traumatiche e formazione di disturbi psicopatologici. La diagnosi di disturbo post-traumatico da stress, tuttavia, seppur efficace nella descrizione degli effetti di eventi traumatici singoli, non riesce a comprendere adeguatamente le manifestazioni sintomatiche osservabili nelle persone esposte a traumi continuativi in età evolutiva o nella vita adulta. Oltre ai sintomi tipici del disturbo post-traumatico da stress infatti, queste persone presentano importanti alterazioni nella regolazione degli affetti e degli impulsi, disturbi dell’attenzione o della coscienza, alterazioni nella percezione di sé nella relazione con gli altri, sentimenti di sfiducia pervasiva o di inutilità e disperazione.

L’introduzione della diagnosi di disturbo post-traumatico da stress complesso e del concetto di trauma complesso (vale a dire quelle situazioni di grave e prolungata trascuratezza e traumatizzazione) (Herman, 1992) ha dato un grande contributo nel superamento di tali difficoltà. Nello specifico, la ricerca si è orientata nello studio dei traumi complessi vissuti in età evolutiva. In questi soggetti l’identità si forma intorno alle reazioni a esperienze traumatiche continuative ed è spesso caratterizzata da problemi nella capacità di regolare le emozioni, difficoltà strutturali nella relazione con gli altri e con se stessi, oltre a sintomi dissociativi e disorganizzazione.

Con il contributo della teoria dell’attaccamento si è visto che da piccoli l’identità, per poter far fronte alle esperienze vissute, si struttura in stati del sé fra loro separati la cui integrazione dipende dalla qualità delle risposte dei genitori. Questi inizialmente esercitano una funzione metà cognitiva vicaria che consente al bambino di riconoscere progressivamente tali stati come esperienze diverse di sé e di costruire la percezione e il sentimento della continuità dell’esperienza di sé. Nel caso di traumi complessi nei primi anni di vita invece, gli stati del sé rimangono separati tra loro e non integrati.

In quest’ottica la dissociazione e i fenomeni dissociativi non sono più da intendersi solo come il risultato delle reazioni difensive messe in atto dal soggetto di fronte al trauma, ma piuttosto come un aspetto organizzativo centrale nella formazione dei disturbi post-traumatici. Si parla in questo caso di dissociazione strutturale, da non confondere con i disturbi dissociativi. Questi ultimi fanno riferimento ad una categoria diagnostica, così come descritta nel DSM-IV-TR, che comprende il disturbo dissociativo di personalità, i disturbi dissociativi non altrimenti specificati, l’amnesia dissociativa, il disturbo di conversione e altri disturbi dissociativi. Questa diagnosi è categoriale e caratterizzata da differenti configurazioni di sintomi.

La dissociazione strutturale della personalità descrive invece un meccanismo attraverso il quale il trauma genera una psicopatologia (teoria della dissociazione strutturale della personalità di Van der Hart, Steel & Nijenhuis, 2006).

TRATTAMENTO

La terapia elettiva nel trattamento della dissociazione strutturale e dei disturbi dissociativi è l’EMDR. L’obiettivo primo del trattamento non è la riattivazione dei processi di elaborazione bloccati dall’esperienza traumatica, quanto piuttosto la modificazione della perdita o della mancata acquisizione della capacità di regolazione emotiva e la risoluzione dei sintomi dissociativi e della disorganizzazione che ne consegue, allo scopo di superare le difficoltà strutturali nella relazione con sé e con gli altri. Una volta superata questa prima fase sarà poi possibile rielaborare le esperienze traumatiche vissute.
Per fare ciò è fondamentale unire il modello dell’AIP su cui si fonda l’EMDR con la teoria della dissociazione strutturale della personalità (Van der Hart, Steel & Nijenhuis, 2006) e la teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1973, 1980; Main, 1996, 1999).

IL TRAUMA NEL BAMBINO DA 0 A 6 ANNI

A seguito dell’esposizione a eventi critici (ad esempio, catastrofi naturali, atti di violenza, la morte di un amico o un familiare), non è raro per i bambini tendano a mostrare sintomi di disagio acuto (come shock, pianto, rabbia, confusione, paura, la tristezza, il dolore, e il pessimismo). Nella maggior parte dei casi queste reazioni sono temporanee e gradualmente tendono a diminuire nei giorni e nelle settimane successive all’evento. Tuttavia, vi sono casi in cui tali reazioni vengono sono parte di più grave trauma emotivo. Le reazioni degli adulti di fronte ad un evento traumatico può avere influire sulla traumatizzazione dei bambini. Tre sono le modalità descritte nelle quali può presentarsi lo stato di stress post-traumatico relazionale:

  1. Ritiro/non ricettività/indisponibilità: i genitori, che nella maggior parte dei casi hanno subito in precedenza altri traumi, sono psichicamente indisponibili per il bambino.
  2. Iper-protezione/costrizione : i genitori sono preoccupati che il trauma possa riaccadere di nuovo e provano un senso di colpa per non essere riusciti a proteggere il loro bambino durante l’evento traumatico.
  3. Ricostituzione della scena traumatica/ messa in pericolo/ terrore: questioni e allusioni che si ripetono incessantemente riguardanti l’evento riattivano nel bambino il trauma; nei casi estremi il piccolo viene messo in situazioni nelle quali si trova a rischio di subire nuovi traumi.

L’effetto che la reazione genitoriale al trauma del bambino può avere sul piccolo, può assumere diverse forme:

  • Minimale: impatto minimo dell’evento sul bambino
Mediatore: l’impatto sul bambino non deriva dall’evento in sé, ma dalle conseguenze riportate dalla madre.
  • Moderatore: le risposte della madre influiscono sull’evoluzione dello stato del bambino.
  • Combinato: i due partner sono traumatizzati e le loro risposte emotive si acerbano reciprocamente.

In generale la reazione genitoriale è considerata uno dei due principali fattori predittivi della capacità di adattamento del bambino a fronte di situazioni traumatiche (Smith et al., 2002).
Nella fascia d’età inferiore ai 3 anni, infatti, i disturbi post-traumatici si allontanano dai criteri classici del PTSD. L’incapacità del bambino piccolo di evocare verbalmente la propria esperienza soggettiva, previsto per 8 dei 18 criteri del PTSD nel DSM-IV, si esprime attraverso lo stress.
Infine, nella fascia di età dai 2 ai 6 anni si aggiungono comportamenti e produzioni (disegno e gioco) ripetitive che riprendono alcuni aspetti del trauma, comportamenti di evitamento con manifestazioni ansiose quali paura e anticipazione della separazione (si aggrappa all’adulto) e paure specifiche (paura del buio, di restare solo, di alcuni rumori..); fenomeni di fuga dissociativa quali flash-back, illusioni, allucinazioni..; tristezza e sentimenti di vergogna.
I sintomi non specifici che appaiono in questa fascia d’età sono:

  • comportamenti regressivi, quali parlare come un « bebé »
  • ripresa della suzione del pollice
  • avidità per i dolciumi
  • ansia dinnanzi agli sconosciuti o, al contrario manifestazioni affettuose rivolte a tutti gli adulti
  • enuresi o encopresi secondaria
  • ritardi nello sviluppo del linguaggio e psicomotorio, accompagnato da arresto o ritardo nello sviluppo ponderale
  • somatizzazioni dolorose, quali dolori addominali, cefalee..
  • disturbi caratteriali come irritabilità, opposizione, rifiuto, aggressività e eccessi di collera o comportamenti di ritiro e mutismo.

IL BAMBINO DA 6 A 12 ANNI

Nella fascia d’età dai 6 ai 12 anni si riscontrano maggiori sintomi appartenenti alla categoria del PTSD.

Il bambino sembra perdere o modificare i propri interessi abituali e ha la tendenza a ritirarsi e a mettere in atto giochi ripetitivi.

Tale attitudine presenta ripercussioni importanti sul rendimento scolastico: difficoltà di concentrazione e disturbi di memoria, problemi di adattamento scolare dovuti alla paura di lasciare il domicilio familiare o i genitori. Si assiste, inoltre, ad un’accentuazione dell’ipervigilanza, e all’apparizione o al ritorno di fobie specifiche (Vila et al., 2001). Permangono, inoltre, le manifestazioni somatiche dolorose, i disturbi sfinterici secondari e le modificazioni caratteriali e comportamentali, con episodi frequenti di aggressività, irritabilità, collera violenta, opposizione sistematica etc.

In questa fascia d’età si assiste frequentemente alla comparsa di sintomi d’ansia quali la paura di separarsi dai genitori o dalle figure di attaccamento, la paura di essere abbandonati o che succeda qualcosa ai genitori e/o di manifestazioni depressive che includono il lutto patologico e i sensi di colpa, specialmente se il bambino si trova in una posizione di sopravvissuto, e che si manifestano sotto forma di inibizione importante (Crocq, 2010).

L’ADOLESCENTE

L’adolescente presenta in parte un quadro clinico comune con l’adulto, caratterizzato da reviviscenze, evitamento e irritabiltà neurovegetativa.

I sintomi specifici (Amaya-Jackson, March, 1995) per questa fascia d’età sono:

  • Sintomatologie dissociative quali flashback, illusioni e allucinazioni
  • Passaggio all’atto che si manifesta attraverso comportamenti autoaggressivi (automutilazioni) o condotte suicidarie, derivanti dai vissuti di colpa (comportamenti autopunitivi). Si tratta di tentativi messi in atto dall’adolescente per sfuggire a stati di vuoto, noia e intorpidimento affettivo, che risultano estremamente dolorosi.
  • Comportamenti aggressivi e delinquenziali derivanti dalla perdita dei riferimenti o della fiducia nell’adulto.
  • Assunzione di droghe e abuso di alcool.
  • Somatizzazioni dolorose e conversioni isteriche (false anestesie o false paralisi, afonie, etc.).
  • Perturbazioni delle funzioni istintuali: disturbi riguardanti il sonno, la condotta alimentare, con episodi possibili di anoressia o bulimia, e il comportamento sessuale (ipersessualità).
  • Disturbi dell’identità e della personalità (stati dissociativi effimeri, insorgere brutale o insidioso di una psicosi), specialmente nei casi di disturbo di tipo II.

L’EMDR per il trattamento del PTSD

L’EMDR si focalizza sul ricordo dell’esperienza traumatica ed è una metodologia completa che utilizza i movimenti oculari o altre forme di stimolazione alternata per trattare disturbi legati direttamente a esperienze passate e disturbi attuali. È un metodo per il trattamento del trauma che potrebbe agire a livello neurofisiologico perché si basa sulla stimolazione emisferica alternata degli emisferi cerebrali, mentre il paziente si focalizza sulle componenti dell’esperienza traumatica. È noto che i due emisferi cerebrali hanno funzioni diverse e complementari a livello psicologico: l’emisfero sinistro ha un punto di vista più positivo, più analitico, permette di guardare avanti e di progettare. L’emisfero destro tende ad essere più olistico ed è sempre in uno stato di allerta per l’individuazione di pericoli. L’EMDR, potrebbe stimolare simultaneamente la rete positiva del destro mentre vengono evocati i contenuti negativi ed ansiogeni del sinistro, e questo porterebbe ad elaborare l’informazione legata all’esperienza traumatica, perché agirebbe sui meccanismi inerenti l’immagazzinamento della memoria. L’EMDR ha come riferimento teorico il modello di elaborazione adattiva dell’informazione che si basa sul concetto che alcuni disturbi mentali siano il risultato di informazione mantenuta in modo non funzionale nel sistema nervoso dovuto ad una elaborazione incompleta dell’esperienza. Il sistema di elaborazione dell’informazione è innato, il disturbo post-traumatico da stress si svilupperebbe quando questo sistema si blocca e l’evento traumatico rimane isolato dal resto della rete neurale (Fernandez I., Maslovaric G., Galvagni M.V., 2011 ). I risultati di numerosi studi hanno dichiarato l’EMDR un trattamento validato empiricamente e probabilmente efficace nel trattamento del PTSD.